Shoah, la storia della famiglia Baroncini
Gli studenti e le studentesse hanno incontrato Eligio Roveri, figlio di Angela sopravvissuta per miracolo in un lager nazista
La democrazia e la libertà di cui godiamo oggi in Italia non sono cadute dal cielo, ma sono state conquistate con fatica e sacrificio. Ne parliamo con Eligio Roveri e Fabrizio Tosi, vicepresidente di Aned Bologna.
Eligio è figlio di Angela Baroncini, detta Lina, cui è stata dedicata una delle cinque pietre d’inciampo in via Rimesse, intitolate a Adelchi Baroncini e Teresa Benini e alle figlie Jole, Angela e Nella. Adelchi, operaio, aveva fatto studiare le figlie, credendo profondamente nell’istruzione anche per le ragazze, cosa non comune per i tempi. Dopo l’8 settembre 1943 inizia l’impegno per la Resistenza: in casa viene attivata una stamperia segreta di materiali antifascisti che le figlie battono a macchina.
Adelchi viene arrestato dalla Gestapo il 24 febbraio 1944 a causa di una delazione. La polizia tedesca si reca in via Rimesse, scopre il deposito clandestino; Lina tenta di addossarsi tutta la colpa, per risparmiare madre e sorelle. Adelchi e Lina sono trasferiti nel temuto comando della Gestapo in viale del Risorgimento, interrogati e torturati.
Teresa e le altre figlie vengono portate nel carcere di San Giovanni in Monte, poi tutti a Fossoli, dove Lina conosce il futuro marito e padre di Eligio, l’antifascista Mario Roveri, e nei Lager: Adelchi e Mario a Mauthausen, le donne a Ravensbrück.
Jole riesce a spedire alcune lettere, il cui contenuto Eligio ha condiviso con noi: racconta la fame che accompagna le sue giornate, i sogni che riguardano pane, maccheroni e tagliatelle fumanti; esprime la speranza di potersi ritrovare tutti insieme di nuovo, con Adelchi, sempre di buon appetito, in tuta da lavoro a capotavola. Si augura che le tre sorelle, ancora giovani e in forze, possano tornare a lavorare per permettere ai genitori un meritato riposo.
Finalmente arrivano gli alleati: Angela viene salvata dagli americani e Nella dai russi, ma per Adelchi, Teresa e Jole è troppo tardi. Angela, al suo arrivo in Italia, ha bisogno di cure, perché pesa meno di 35 chili. Nel suo stesso ospedale ritrova Mario.
Nella rientra in Italia in ottobre del ‘45: lei e Angela sono le uniche sopravvissute della famiglia.
Continuare a raccontare fatti lontani nel tempo, secondo noi, è importante, perché non accadano più. Fondamentale è la trasmissione di memoria tra generazioni, soprattutto per vigilare sul presente.
Classe 2B: Riccardo B, Bianca B, Paolo C, Filippo D, Claudio D, Davide D, Kate D, Owen F, Agata G, Yusra K, Viola M, Vittoria M, Chiara M, David N, Eugenia O, Gurjot S, Enrico S, Rubaya T, Alessandro V, Nina Z, Andrea Z, Iker Z, Professoressa Trippa
Creare un “inciampo mentale” è l’obiettivo di questi piccoli pezzi di memoria, quadrati di ottone delle dimensioni di un sanpietrino, posti nel selciato di fronte alle abitazioni delle vittime delle deportazioni nei Lager, ideati dall’artista tedesco Gunther Demnig all’inizio degli anni ’90. Dopo averli incontrati una prima volta, sono impossibili da dimenticare, perché viene naturale fermarsi, leggere “qui abitava”: il nome, la data di nascita, di arresto, le tappe e i luoghi della deportazione e, quasi sempre, purtroppo, la data e il campo del decesso. Nella loro semplicità esprimono più di un grande monumento, perché ci ricordano che la deportazione avveniva nelle strade dove noi camminiamo ogni giorno, ma dove chi è partito non è più tornato. Le pietre sono dedicate soprattutto a ebrei inghiottiti dalla Shoah, ma anche a oppositori politici e partigiani.
In Europa e in Italia le pietre d’inciampo sono numerose. Possiamo incontrare in Strada Maggiore 13 la famiglia Calò, madre e sei figli, tutti morti ad Auschwitz; in via de’ Gombruti 9, Leone Alberto Orvieto, rabbino capo della comunità di Bologna, e la moglie. In via del Cestello 4 abitava Mario Finzi, giovane promettente giurista e musicista. In via Rimesse vivevano i Baroncini: le cinque pietre, le uniche a Bologna dedicate a vittime non ebree, mostrano l’eccezionalità di una famiglia deportata per le opinioni politiche.
L’Aned rappresenta gli ex deportati e le loro famiglie, insieme a tutti coloro che si riconoscono negli ideali promossi. Lavora nell’ambito della ricerca, della conservazione delle fonti, nell’organizzazione di eventi educativi e di viaggi della memoria. I suoi volontari nelle sedi presenti in molte regioni si rivolgono soprattutto alle scuole e ai giovani per sensibilizzare anche su temi di attualità. Eligio Roveri ci ha spiegato il perché dell’adesione. «Era naturale che un’associazione con tali finalità dovesse far parte della mia vita – spiega –. Inoltre ho sentito il dovere di dare il mio contributo per cercare di mantenere vivo il ricordo di ciò che è successo».
Anche per Fabrizio l’adesione è arrivata con l’esperienza familiare, tramite il padre Carlo Tosi, che fu tra gli Imi, Internati militari italiani: soldati che dopo l’8 settembre 1943 si rifiutarono di continuare a combattere per i nazifascisti. La sede di Bologna ha potuto contare per molti anni su Armando Gasiani, deportato giovanissimo insieme al fratello, che non è ritornato.