«Il fast fashion è sfruttamento» Il lato oscuro della moda
Le studentesse delle Marconi raccontano come sia una pratica dannosa per l’ambiente I social media lo hanno reso un fenomeno globale. Molti i rivenditori europei come Primark e Temu

Nel frenetico mondo della moda, il fast fashion è come una calamita irresistibile. Sembra un sogno, le tendenze cambiano in fretta e i capi di abbigliamento vengono messi in vendita a prezzi incredibilmente bassi. Ma dietro alla promessa di un guardaroba sempre nuovo, si nascondono molti segreti sulle condizioni di lavoro ma soprattutto su quello che causano all’ambiente. Infatti la velocità con cui questi capi vengono creati, consumati e scartati alimenta una spirale di sfruttamento e inquinamento che mette sempre di più in pericolo la sostenibilità del nostro futuro. Per definire tutto ciò si usa il termine fast fashion, un ciclo accelerato e senza sosta di progettazione, produzione e fornitura che i brand hanno sviluppato per incoraggiarci a comprare i loro prodotti a basso costo e bassa qualità.
Il fast fashion è nato negli anni ’90 con catene, che hanno reso la moda più veloce ed economica, portando rapidamente le tendenze delle sfilate di moda nei negozi. La diffusione è stata logicamente facilitata dalla produzione a basso costo in paesi asiatici, come Bangladesh, Vietnam, Ghana, India e molti altri. Oggi, grazie ai social media è diventato un fenomeno globale.
La maggior parte di questi vestiti si vendono su Shein, Primark, Bonprix, Temu e Peacocks. Le conseguenze sulla popolazione sfruttata non sono poche, i lavoratori stanno in fabbrica anche 13 ore al giorno e vengono pagati così poco che sono costretti a vivere in povertà, nell’ultimo periodo stanno aumentando anche i casi di suicidio tra gli occupati.
Inoltre ha effetti negativi anche sull’ambiente; l’inquinamento causato dall’uso di sostanze chimiche spesso rilasciate in fiumi o mari provoca danni all’ambiente, la produzione di molti più rifiuti del dovuto a causa della rapidità di produzione, contribuiscono alla creazione di vere e proprie discariche di vestiti. Un’alternativa sostenibile al fast fashion potrebbe essere lo slow fashion che dà importanza specialmente alla qualità e alla durabilità del prodotto, ma soprattutto all’uso di materiali sostenibili come cotone bio o fibre riciclate.
Un ’altra cosa molto importante è scegliere un brand che rispetti i diritti dei lavoratori e l’ambiente. È necessario sapere cosa si nasconde dietro ad una maglia che costa cinque euro, una storia di sfruttamenti, di lavoro e di vite interrotte e rovinate per una sola e semplice maglietta. Insomma, il fast fashion non è altro che un’applicazione della cosiddetta economia della scarsità.
Le studentesse: Viola Aulino, Lucia D’Innocenzio, Gaia Ruffo 3A
Abbiamo approfondito il discorso su come poter rendere sostenibile l’incredibile produzione di vestiti degli ultimi decenni, intervistando Celeste Pacifico, la responsabile della Boutique solidale di Andrea Costa a Bologna. Celeste ha quarantasette anni e lavora su questa tematica dalle scuole superiori. Essere volontaria in questo settore le dà molta felicità, perché sa di far del bene agli altri e all’ambiente. Il progetto che coordina prevede la raccolta di abiti usati che i cittadini portano presso la loro sede. Gli indumenti vengono tolti dai sacchi, controllati; quelli in buono stato venduti a basso prezzo, gli altri donati a persone indigenti. La prima domanda che le abbiamo fatto è stata: «Come facciamo a riconoscere prodotti che vengono dallo sfruttamento di lavoratori?» La sua risposta è semplice: «Dobbiamo imparare a guardare l’etichetta» e di conseguenza «evitare di acquistare capi di brand a basso costo che danneggiano l’ambiente e sfruttano i lavoratori». In secondo luogo «prima di comprare un qualsiasi capo dobbiamo porci delle domande: ci teniamo così tanto a quell’abito che non riusciamo a non comprarlo? Possiamo farne a meno?», sostiene Celeste.
Le studentesse e gli studenti: Mariapaola Scaglioni 2C Marysol Gonzalez 2C Stella Chiapperino 1C Maria Pia Infantile 1C Frida Venturi 1C Simone Bongiovanni 3D
Per capire quante persone seguano il fast fashion abbiamo elaborato un sondaggio all’interno del nostro Istituto Comprensivo. Ci siamo resi conto che il 77%,ovvero la maggior parte degli intervistati, pur conoscendo le conseguenze che i brand a basso costo hanno sull’ambiente e sulla la vita quotidiana dei lavoratori, continuano ad acquistare abbigliamento da queste catene. 131 persone hanno risposto al sondaggio e poco più della metà degli intervistati ha acquistato occasionalmente dai brand low cost.
La maggior parte delle persone compra vestiti ogni due o tre mesi, ma ci sono altri che acquistano abiti una volta alla settimana. Il 15% ha molti indumenti che non utilizza, mentre il restante 85% delle persone non ha vestiti mai indossati.
Gli studenti: Aisha Nala Sow 1c, Elena Lolli 1c, Emma Borgatti 1c, Sara Morgante 2c, Aeyane Herrera 2c.
Professoresse Annalisa Foresta, Manuela Bonade