Un angolo green per la moda «C’è un mondo» in via Guerrazzi
Anche nell’abbigliamento è possibile una filiera ecosostenibile: lo racconta la 3B delle Guido Reni L’esperienza del negozio in pieno centro: «Valorizziamo le materie prime e la loro qualità»
Ogni giorno indossiamo vestiti diversi. È diventata parte della routine, apriamo l’armadio e chiudiamo il cassetto. Ma dietro ogni capo c’è un mondo. Di cosa? Ce lo hanno spiegato Linda ed Emanuela, le proprietarie del primo negozio a occuparsi di moda etica e sostenibile a Bologna e in Italia. Si chiama «C’è un mondo» ed è in via Guerrazzi.
Che lavoro facevate prima e che cosa vi ha spinte a cambiare? «Inizialmente lavoravamo per una multinazionale che produceva articoli da vendere in massa. Ci siamo rese conto che esisteva una forte disparità tra le condizioni di lavoro, il costo dei prodotti e il prezzo con cui venivano rivenduti nel mercato tradizionale. Abbiamo cominciato una crescita personale facendo volontariato in un’organizzazione non governativa chiamata «Mani Tese», per poi decidere di aprire un negozio equo solidale con le nostre competenze. Rispetto a dove lavoravamo prima, guadagnavamo meno e ci siamo rese conto che la nostra scelta comportava grossi rischi, ma non ce ne siamo mai pentite».
Che cosa c’è in negozio? «L’equo solidale è più noto per l’alimentare; noi invece abbiamo scelto di vendere soprattutto vestiti, per valorizzare le materie prime e la cultura dei capi di qualità. Non seguendo le ultime mode preferiamo, infatti, che la clientela abbia la possibilità di sfruttare lo stesso abito per un lungo periodo. Il nostro negozio propone due collezioni all’anno, contro le cinquantadue delle aziende più famose».
In negozio qual è il vostro target? «I nostri clienti più frequenti sono donne di una fascia di età medio alta, anche se in questo periodo il negozio sta accogliendo ragazze più giovani. Le collezioni si costruiscono a misura dei clienti ed è più difficile che entrino giovani e uomini. È molto importante conoscere il mondo dell’equo solidale per comprendere al meglio il nostro lavoro».
Perché svolgete laboratori nelle scuole? «Tra i nostri principi c’è anche questo: sensibilizzare i ragazzi, che sono più attenti all’ambito della moda, potrebbe portare a un aumento di utilizzo di capi sostenibili».
Progetti futuri? «Vorremmo spingere sull’e-commerce, ossia l’acquisto online, con cui vendiamo in tutt’Italia.
Continueremo a proporre alternative green e a valorizzare nuove realtà, rispettose dell’ambiente e dell’uomo».
Articoli a cura di Riccardo, Bianca, Paolo, Filippo, Claudio, Davide, Kate, Owen, Sofia, Agata, Yusra, Viola, Vittoria, Chiara, David, Eugenia, Gurjot, Enrico, Ruby, Alessandro, Nina, Andrea, Iker.
«Il significato che noi vogliamo trasmettere nel termine equo solidale è che, oltre a utilizzare materiali migliori per l’ambiente, bisogna rapportarsi in modo etico con produttori e acquirenti, stabilendo un rapporto di confidenza, equità e rispetto. Per questo facciamo parte di un’associazione che si chiama «Equo garantito», che controlla sia noi che i nostri importatori. Se un marchio si definisce sostenibile deve dimostrarlo con delle certificazioni, mentre quelli equo solidali devono essere approvati da Wfto-World fair trade organization». Emanuela e Linda, le proprietarie del negozio «C’è un mondo», attività specializzata in moda etica e sostenibile, ci hanno anche raccontato che le loro attività riducono le disuguaglianze favorendo la crescita delle comunità locali.
La trasparenza è fondamentale per informare il consumatore sulla produzione dei capi.
Nonostante le difficoltà di espansione, il commercio equo solidale è una valida alternativa al fast fashion per costruire un’economia globale più giusta, inclusiva e sostenibile.
Un esempio di impresa sostenibile è «Rifò», una giovane realtà di Prato, in Toscana. Si tratta di un’azienda che si occupa di riciclare e produrre vestiti in filati rigenerati. Indovinate qual è stato uno dei primi negozi in Italia dove hanno venduto i loro prodotti? Proprio «C’è un mondo».
Fast fashion, o «moda veloce», è un tipo di industria che produce molte collezioni in breve tempo, ma di scarsa qualità. Offre vestiti a basso costo e, per produrli, sfrutta lavoratori poco tutelati e non si cura del rispetto dell’ambiente. Dagli anni ‘90, con la liberalizzazione del mercato, le catene di Fast fashion delocalizzano le loro fabbriche, soprattutto in Asia.
Questo ha portato alla perdita di posti di lavoro nei paesi ricchi e allo sfruttamento in quelli poveri.
Movimenti come ’No global’ e il libro ’No logo’ di Naomi Klein hanno sensibilizzato l’opinione pubblica su come le case di moda influenzino le nostre scelte e sugli effetti negativi che quest’ultime hanno sulla società e sull’ambiente.
Dopo la crescita di consapevolezza nell’acquisto di capi da parte dei consumatori, purtroppo il fenomeno del Greenwashing è in aumento.